martedì 31 gennaio 2012

Ti voglio bene Tokyo




di Cesare Veneziani

E’ notte. Da dove mi trovo posso sentire gli aerei che atterrano e decollano. Stasera lo fanno in continuazione. Posso vedere le luci intermittenti dei faretti sulle ali disegnare un percorso dritto e fluorescente in mezzo al cielo scuro, mentre dal divano sbircio tra le foto che abbiamo piazzato sotto il vetro del tavolino dove poggiamo i piedi la sera. Ci sono tre posaceneri nel raggio di mezzo metro quadro e, completamente rassegnato all’idea che Bill Murray non riuscirà mai a dire quel che deve alla sua Scarlett, comincio a pensare che smettere di fumare potrebbe essere una bella idea. In futuro. Penso pure che la mia Scarlett io ce l’ho: alte uguali, con gli occhi chiari e la bocca carnosa. La mia non è molto famosa in effetti, però è intelligente e sensibile e piena di slanci. E poi non vuole perdermi e vuole fare i figli, mi sembra di aver capito. Qualche volta lo dice, magari nel vaneggio domenicale delle tre del pomeriggio, quando ancora odoriamo di birra e sesso tantrico.
La mia ragazza certe volte mi spaventa. Ha tanto di quel coraggio istintivo quando una piccola dose sveglierebbe molta gente, compreso Adolfo. Ma questa è decisamente un’altra storia, che mi sfiora, ma non c’entra. Io non lo so se ce l’ho questa linfa, il coraggio forse, ma non è nemmeno questo il punto.
Il punto è che quando ieri mi hanno detto “Sai che stai vivendo proprio dei bei rapporti, perché non provi a scriverci qualcosa sopra?” a me è preso il panico, letteralmente, anche se in quel momento non ho avuto nulla da obiettare. Anzi, sembravo quasi d’accordo. Ero diventato muto. E non ditemi che i muti sembrano contrari alle iniziative pratiche perché non è vero.
Ed eccomi qui, a pensare ai rapporti belli. Anche quelli difficili, dove freddezza e malessere governano l’aria e promettono solo gelo e distanza, paura e silenzi imperforabili. In un certo senso (lontano, ma non astratto) anche quelli sono rapporti importanti. Prima, invece, per me era diverso. Alla prima occasione si buttava tutto in vacca. Si urlavano spropositi. Si usavano mezzi invisibili camuffati da vita, come il gioco e la coca, l’alcool e il sesso vuoto. Ginnastica da rete satellitare. Ma soprattutto ci attaccavamo sempre a lei, all’ironia, che se usata nel modo sbagliato sa essere letale come un AK 47 in mezzo a una folla di pacifisti. Così i rapporti, in fondo il fine più grande, diventavano il mezzo per guardare il baratro da sottoterra, e follemente dire: “Si sta meglio quaggiù tutto sommato, più riparato”.
Follia. La Tokyo del film e le sue luci pirotecniche mi inglobano nello schermo a quarantadue pollici che curiosamente è il mio. O forse dovrei dire nostro, visto che l’abbiamo avuto in dono dalla nonna della mia fidanzata, qualche mese fa, poco prima che morisse. A me la tele non è mai piaciuta troppo, lo devo dire, ma se la mia ragazza pensasse che questa spara-immagini fosse tutta sua credo che ci rimarrei male.
Nonna Silvia se ne è andata quest’estate a ottantadue anni. Noi abbiamo sgomberato la casa e aiutato i figli - tra cui la mamma della mia ragazza - a fare il trasloco, e poi la tele è finita a noi. Ecco la storia. Una parte.
Eravamo senza tele da un pezzo, perciò le sono più grato del dovuto. Ironico che proprio una donna di quell’età ci abbia lasciato l’ultimo ritrovato di tecnologia giapponese. Comunque mi sta bene, perché un capolavoro di film come questo è meglio vederlo in un grande schermo.
“I film basati sulle immagini vanno visti al cinema, oppure in un grande televisore al plasma”. Lo dice sempre la mia amica F., che i film sono il suo pane, specie quelli vecchi. F. adesso non mi parla. Non mi ha voluto dire il perché ma credo pesi come un macigno la mia assenza non forzata alla festa d’inaugurazione della sua nuova casa. Quando mi ha puntato il dito contro io volevo morderglielo, volevo urlare qualcosa tipo che a me delle case non è mai fregato un cazzo (sul serio), che sono sempre stato in affitto e che la casa di proprietà mi sembra un cliché occidentale, vecchio e pure un po’ fascista. Ma adesso che è passato del tempo, anche se a me della casa in sè me ne frega sempre poco, ho capito che per lei era importante, e che avrei dovuto condividere meglio questa sua realizzazione. Ma non l’ho capito prima, no. L’ho capito poi, e questo cambia tutto.
Ma che ci devo fare se su certe cose sono così lento e pure mezzo cieco? E questo nei rapporti pesa, come quando la mia piccola Scarlett ha dimenticato di ascoltarmi alla radio e il mio ego è andato a farsi fottere con tutto il mio amore per i suoi occhi blu, tentando il suicidio in quell’angolo di Tevere ancora mezzo buio (mica io, l’ego). Accadeva un mese fa. Insomma, ci sono rimasto male. Poi lei si è spiegata e abbiamo fatto pace, come la vorrei fare con F.
Ora mi chiedo cosa sia questa cosa che mi punge l’aorta. Non penso di avere un tumore, né malattie gravi. Non è nemmeno la follia, che è gravissima ma non è fisica… mentre adesso io il dolore ce l’ho fisico.
Vorrei sentirmi più evoluto di prima solo perché ho appena spento una Marlboro, lo confesso, perché ho acceso il portatile e contemporaneamente ho stoppato questo bel film in un Sony da mille pollici (comunque Bill Murray che prova i suoi swing su un campo verde pisello con coppola a quadri e il monte Fuji come sfondo merita un fermo immagine di almeno due minuti, se ti ritrovi una televisione del genere in salotto). E in questa abbondanza da ventunesimo secolo e piena crisi globale non posso nemmeno considerarmi ricco, che la mia macchina è del novantanove, con le cinte rotte e un faro fuori uso e dio solo sa cos’altro, e non va quasi più e ne devo comprare una nuova, ma non ho i soldi.
Non riesco a definire la ricchezza.
Un pizzico di solitudine la provo, che non è bello quando vuoi chiamare F. e dirle solo “stronza” ma anche “ti voglio bene” e proprio non riesci a farlo, e allora ti ritrovi a pensare ai rapporti che non funzionano e a quelli che sono andati affanculo. Colpa mia, colpa sua: fa lo stesso. Quattro pareti e un plaid verde acido, un buon libro sul comodino - si sarà mosso? - il caffè per domattina e tante vitamine gialle messe in fila sul lavello. Mi dico: “Dai che ci sei, bello. Sei nella macchina della vita. Te la devi godere, se no cosa scriverai sul tuo social network preferito?”
Ripenso a mio fratello, quello coi soldi e la villa, quello con cui le cose non funzionano ormai da un po’. Vecchie ruggini. Soldi mai restituiti. Penso all’altra sera, di ritorno dallo stadio e davanti a una birra di troppo, quando mi ha confessato di essere ancora affranto per la morte del suo grande amico G..
“Capisco” ho detto io.
“Sì ma non ho voglia di parlarne. Voglio comprare il suo casale” ha detto mio fratello, poggiando la birra sul tavolo come fosse una clessidra.
“Perché?”
“Voglio farne un agriturismo con gli alberi da frutta, l’orto e tutto il resto” ha detto lui, convinto “niente di speciale. Una cosa carina in memoria di G.”.
“Mi sembra una bella idea…”
“Sì?”
“Sì, davvero. Ma chi se ne occuperebbe?”
“Io”.
“E come pensi di fare con il tuo lavoro?”
“Ne ho le palle strapiene di quei pupazzi incravattati che dicono cose tipo brand, trend, partnership, misunderstanding, pied à terre e altre cazzate del genere… capisci?”
“Sì certo, sai che li odio, ma perché vuoi fare questa cosa?”
Mio fratello ha serrato le labbra e mi ha preso le pupille tra le sue. Le ha strette forte e poi una piccola lacrima gli ha rigato la faccia. La sigaretta non c’era più. La luce del ristorante era quasi scomparsa, più bassa di quella di un salva vita. Aspettavo una risposta, ma era chiaro che poteva anche non dire niente. Ho immaginato il dolore che si prova a perdere una persona così vicina, un amico.
Silenzio.
Ho pensato a G. e mio fratello, insieme, quel giorno che si sono venduti la Vespa per andare a giocarsi tutto al casinò di Venezia, e poi ho rivisto mio fratello portare la bara del suo caro amico, il giorno del funerale. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, sbarrati e senza luce. Non aveva nemmeno l’energia per piangere. Una forza disperata lo muoveva verso la macchina come una marionetta mentre il sole di fine Luglio ci richiamava scioccamente alle vacanze e al calciomercato. Quel giorno, alla fine, mio fratello disse: “G. è morto” e abbracciandomi aggiunse “Ti voglio bene”. Ma non c’è niente di terreno che possa sospingerti quando la vita si tinge di nero.
“Prima di morire, G. mi ha chiesto quale fosse la cosa più bella che avessi creato nella vita” ha ripreso mio fratello, riportandomi a noi e alle nostre birre calde.
“E tu che gli hai detto?”
“A parte i miei figli?”
“Sì”.
“L’orto”.
“L’orto?”
“L’orto fratellì” ha ripetuto mio fratello, sicuro.
“E lui che ti ha detto?”
“Ha detto ‘bravo, che i figli crescono e gli amici muoiono’, invece gli orti risorgono sempre. Ha detto così”.
Ho pensato: ti voglio bene fratello, come ne voglio a questa Tokyo che mi attira a sé come una calamita. Chissà se trovo il modo di andarci.

lunedì 30 gennaio 2012

Le Storie


di Andrea Ingrosso

Ci sono storie che ritornano là
dove ancora non esistevano.
Nel luogo in cui erano prima di nascere.
Sono le storie che finiscono
perché non sono mai davvero esistite.
Storie che non avrebbero
mai dovuto iniziare.
Ci sono storie che arrivano là
dove nessuna storia è mai arrivata.
Nell’unico posto in cui davvero potevano esistere.
Sono le storie che mai avresti pensato
potessero partire.
Storie che non avrebbero
mai dovuto finire.

Baci che ami


di Andrea Ingrosso

Baciami con la fame randagia addosso.
Come un animale uscito dal branco.
Baciami senza calcolato risparmio,
con un alto consumo energetico.
Non perdere tempo.
Prendi posizione e baciami.
Baciami tra il suo illecito scaturire
e il suo legittimo divenire.
Baciami anche burocraticamente,
ma baciami.
Baciami con la necessaria dannazione
e la mistica devozione.
Togliti di dosso la dignità,
la creanza,
il ritegno e baciami.
Baciami senza un perché,
con una buona dose di ma
e con tutti i possibili se.
Baciami per riempirti di me
fino in fondo.
Fino in fondo, baciami.

martedì 24 gennaio 2012

AUTORITRATTO A POIS


di Lavinia Collodel


Questa è la mia versione dei fatti.
PincoPallo books&beer. Interno. Sera]
Non vedo Vale da un mese, abbiamo arretrati da raccontarci.
Entro e noto una figura seria, mobile, lievemente scura.
Sono in ritardo, per le ultime email, e non ho ancora staccato il cervello dal lavoro. Ringhio un po’. Ma Vale me lo stacca in un secondo, basta ordinare due birre, Menabrea, buona.
Stiamo fitte fitte a chiacchierare, ci districhiamo in un sottobosco di aneddoti frivoli, idee, discorsi seri, sogni. Bello.
Ci siamo io, lei, il tavolino rotondo, i lupini, i semi di zucca, i taralli. Stop.
(Bugia).
Ci siamo io, lei, il tavolino rotondo, i lupini, i semi di zucca, i taralli, due birre, e figura-seria. Ma provo a non farci caso.
“Carino il posto, non ci vengo da un po’”. E anche figura-seria e i suoi occhi mi trapassano, forse guardano qualcosa dietro di me. O forse no.
Imbarazzo.
“A uomini come stai messa?” Eccola Vale, che mi sgama sempre.
“Ci sei uscita con quel tipo poi?” Intigna.
“No, nulla, F4”. Basita.
“E di questo qui dietro che ti sta guardando cosa ne pensi?”
“Maccheddìci?!” Viola, forse a pois, mi nascondo dietro la sua testa riccia, impresa ardua visto il metro e cinquantacinque di Vale, contro i miei ben sei centimetri in più. Mi spalmo sul tavolino. “Non l’ho visto bene”. (Bugia).
Fame chiama Torta con i Pinoli. Non quella dolce della nonna, ma una salata, buona, che mangio sempre quando vengo qui. Il ragazzo al bancone mi spiega l’interno, lo conosco l’interno, e anche lui, di vista, ma non mi ha riconosciuto, saranno i capelli stracorti che mi sono fatta. Accanto c’è figura-seria. Mi nascondo dietro i capelli corti.
Questa è la serata mia e di Vale, per cose nostre, niente intrusioni. Alzo muri e apro feritoie per guardarci attraverso. Peculiar.
Figura-seria si accende e si spegne in diversi punti della stanza, chiacchiera qua e là, è del posto. E io dentro, dietro, sotto il mio caschetto protettivo. Imbécil.
“Sigaretta?”
“Sigaretta”.
Una boccata d’aria ci sta tutta. Vale tira fuori l’accendino, me lo sta per passare, e se lo rimette in tasca. Non capisco. Polla.
“Chiedilo a lui”. (Se ne hai il coraggio, aggiungo io).
Figura-seria esce, traffica vagamente con il cellulare, e a me esce un “Che hai da accendere?”, con voce stridula. Ma che storia è questa, mai iniziata una frase con il CHE. Inorridisco di me stessa.
Fa freddo.
Ci risediamo dentro e veniamo interrotte da tre quattro cinque otto dieci marocchini che ci vorrebbero rifilare di tutto, ma ne usciamo vive. Parliamo della nostra sweet La-mou, a cui devono essere fischiate le orecchie visto che ci cerca e ci passa a trovare, Darling.
Noto le gambe di figura-seria che passeggiano avanti e indietro accanto al nostro tavolino. Sta per andarsene, penso. Ma ho una calamita che lo trattiene qui tentennante, rido.
Poi se ne va, non riesco a girarmi, mi si è incriccato il collo, irrigidito il busto, spappolato il cervello.
“Te lo saluto io?” mi chiede Vale e lo saluta.
Andato.
Tanto avevo deciso niente rogne con uomini. Mi sono strarotta i coglioni di tutti i soggetti che ho incontrato ultimamente. Credo al Principe Azzurro? Vale mi dice che sono io una Principessa Azzurra.
Pensiero cosciente: il prossimo è un vigile del fuoco (bello, forte, altruista e senza fronzoli per la testa e ho una comoda caserma dietro casa); o un detective, un commissario di polizia (sveglio, intuitivo, che risolve casi, e magari mi capisce pure, come Scialoja). Ma mai, non sia mai, uno che scrive. Primo perché mi farebbe rosicare a prescindere, secondo perché non potrei sopportare uno a cui parte la capoccia altrove da un momento all’altro, come me.
Questo non lo dico a Vale però. Comunque mi parte il cervello che inizia a vagare su pensieri di giorni, settimane fa, e intanto parlo di altro. Ma sono staccata, non ci sto più. Passo in rassegna i libri alle pareti. Esco a vedere se figura-seria c’è ancora.
Andato.
La-mou riaccende la serata, parla di A/, sono bellini insieme. Poi vede che sto un po’ altrove e mi mette le sue cuffie alle orecchie, Édith Piaf, e quasi mi addormento.
Il resto è veloce. Riaccompagno entrambe a casa, torno da PincoPallo, chiedo a uno dei ragazzi del locale “Cercavo… come si chiama…?” Tentenno. Lo chiedo o non lo chiedo?
“Ah, ecco, Mattotti, Lorenzo Mattotti, avete qualcosa di suo?” Non ce l’ho fatta. Sfoglio un paio di libri suoi e ce li ho pure. Buonanotte e grazie.
Buonanotte un corno. Una puntata di “Romanzo Criminale”, qualche lettura qua e là, e occhi al soffitto. E quando finalmente dormo faccio tre sogni assurdi e mi sveglio alla fine di ognuno. Mi riaddormento e mi sveglia un raggio di luna. Sì, una cosa incredibile. Ho lasciato le persiane accostate, la luna è entrata in una fessura, e mi ha colpito, accecandomi, a occhi chiusi.

[Giorno seguente. Martedì]
Ometto otto ore di lavoro. Testa sulla tastiera per il sonno.
Finalmente fuori. Prima o poi tornerò da PincoPallo, sono curiosa.
Mi incammino verso la fermata del 3, oggi sono a piedi. Ma ‘sti due piccoli paraculi cambiano strada a mia insaputa e mi ritrovo di fronte a PincoPallo books&beer. E mò? Odio il mò romano, ma qui ci sta tutto.
Fortuna che non ci sono gli stessi ragazzi che lavoravano ieri.
Cerco di capire cosa fare. E ho sonno. I piedi decidono e si parcheggiano sotto una sedia.
Sono ufficialmente seduta da sola in un locale senza saperne il perché.
Bevo una free press intera leggendo una birra.
Poi cerco un libro. E mi trovo tra le mani Antonio Pascale, non lui in persona. “Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro”. Lo giro ed è presentato così, prime righe: “sono un uomo da pausa, non da arrivo”. Perfetto, mi ci vuole proprio una pausa. Lo compro.
Mi risiedo al tavolo e vengo catapultata in Molise.
“Bene, così non penso”, penso. Un po’ come Mannarino quando dice “trova un’altra scusa, scusa”.
Parentesi. Torno un attimo indietro. Ho chiesto alla ragazza alla cassa com’è il libro. A lei piace. Ciò mi rassicura. Mi esce di chiederle quanti anni ha questo Pascale. Questa cosa dell’età a volte mi ossessiona. Tipo: quanti anni aveva tizio quando ha fatto il suo primo capolavoro, o quando quel tale ha fatto la sua prima personale, o un musicista il primo concerto serio, o uno scrittore vinto un concorso valido. Beati loro. Torno a Pascale. Ne ha 46, dice un tipo da un tavolino. Bene, è più grande di me, lo leggo.
Due accanto parlano di un viaggio a Firenze. Uno di loro a voce troppo alta, per i miei gusti, si vuole far sentire. In realtà è proprio il timbro che mi irrita. A tratti mi distoglie dalla lettura. E quando sento che parla del Davìd accentando la i, e poi confonde il Mameli con il Mamiani, e critica gli ex-Viscontini (alla sua età, questi discorsi?), mi alzo e vado a leggere al bancone. Ho un carattere di merda, mi vorrei schiaffeggiare, ma già sono qui da sola, non posso esagerare.
Ho superato le settanta pagine. Ormai lo finisco, il libro. Mi ero chiesta se figura-seria sarebbe potuto passare stasera. Pascale mi intrattiene felicemente e il pensiero è lontano.
(Bugia).
Seconda birra.
Scosto un attimo gli occhi dalla pagina e noto un paio di gambe. Gambe sedute allo sgabello accanto al mio. Non ho la più pallida idea da quanto siano qui. Non che siano delle gambe particolarmente belle da meritare attenzione, ma sono solo perplessa dal fatto di trovarmi completamente immersa nel libro da non so quanto tempo da non accorgermi di cosa mi succeda intorno.
Bravo Pascale.
Ora però, mi dispiace dirtelo, Pascale, ma non ti seguo più.
Alzo la testa dalle gambe e c’è figura-seria attaccato a loro. Sono effettivamente sue.
Non so se esce un ciao a me o a lui, forse a nessuno dei due e l’ho solo immaginato.
Ha un bicchiere di vino bianco, brinato, l’ha preso da poco, dunque.
Il ragazzo al bancone ci serve una ciotolina di lupini:
“Vi va bene una in due?” ci chiede.
Tipo Lilli e il Vagabondo.
Meno male che un ciuffo mi cade sul viso.
Stavo tanto bene in Molise.
Figura-seria pare un po’ Corto Maltese. I miei cari amici, che mi vogliono bene, dicono che con il nuovo look sembro Valentina. Seee. Sto messa bene, se parto con i fumetti arrivo ai cartoni, poi alle Cascate Paradiso e al viaggio in Argentina che non mi posso più permettere perché dicembre non è andato come speravo. Merda.
Mi sento lievemente agitata. Come un Martini cocktail di James Bond, agitato non mescolato. Mi piacerebbe essere trasparente come quel Martini, ma credo di essere più un Negroni, ora.
Sbadiglio per prendere aria. Mi rendo conto che stavo in apnea. E parlo. Sempre che chiedere una sigaretta sia parlare. Così esco e prendo altra aria. Esce pure lui. Ma non ci diciamo nulla, credo. O forse cerco di attaccare bottone in maniera terribile. Strano, questo tipo qui mi intimidisce e mi rende decisamente ridicola. Ma anche bella. Basta un suo sguardo di sfuggita, che sembra di sfuggita, ma è molto penetrante. Mi sento infinitamente tonta. E’ la parola giusta, tonta, d’altri tempi.
Nel frattempo che penso, fumo e penso penso penso che non voglio nulla e che ci sto a fare qui, salta la luce, dentro, fuori, all’intero quartiere. PincoPallo si illumina di candele e diventa tutto estremamente rilassante, inizio a sentirmi a mio agio nella penombra.
Ritorno alla mia lettura e ritorna la luce, peccato. Il locale si popola di amici di figura-seria, un gruppetto allegro che se lo porterà via a breve, tanto io finirò il mio libro e andrò a dormire.
Mai programmare qualcosa.
E’ così che vengo risucchiata in una dimensione parallela.
Vengo sradicata dal mio sgabello da C/, amico di figura-seria, che si presenta dicendomi che lì fuori mi vorrebbero a cena con loro. Ecco, questo non me lo aspettavo proprio. A dir la verità non so assolutamente cosa possa succedere, non riesco a prevedere niente, di solito so orientativamente aspettarmi qualcosa, leggo il pensiero, le mosse, ma figura-seria nella sua compostezza è decisamente fuori dalla mia portata, ha in sé una vibrazione che mi arriva confusa ma magnetica. Mi chiedo se si stia grandemente prendendo gioco di me, o che sia semplicemente una sorta di esperimento comportamentale, potrebbe essere. Vada per l’esperimento comportamentale. Anche se nel momento stesso in cui decido sia così, mi perdo.
Ormai sono per strada, un intreccio di mani, non ricordo i nomi di tutti, ma ricordo il suo, lo chiameremo “Ugo”. Palleggio da una parte all’altra, e mi sento bene. Sono vivi questi tipi qui, è piacevole sentire il sardo parlare, il professore, le ragazze mi sorridono sinceramente - cosa rara quando entra un’intrusa in un gruppo - quindi 10 punti alle ragazze. Poi c’è una coppia carina, lui ha gli occhi che ridono, lei sembra felice. Alcuni non li colgo, alcuni mi sembra di averli già incrociati in zona. E pare che scrivano tutti o almeno leggano molto. Una sensazione di accoglienza che non è da esperimento comportamentale di certo.
E quindi mi trovo a tavola con loro davanti a una pizza e a destra di Ugo. Poi ci sono E/ e C/ che mi fanno sentire coccolata e una coppia che mi studia. Ovvero, studia me accanto a Ugo. Da lì i dubbi. E dalle continue telefonate e poi i messaggi - sms e forse pure email fb twitter blog e piccioni viaggiatori. Ugo c’ha da fa’.
Quindi, sorridente e chiacchierante e dissimulante, mi parte un embolo:
A. Ha la ragazza (che giustamente sente quando gli pare).
B. Ha una ex che la tira per le lunghe (a cui è affezionato e ascolta).
C. Ha problemi in famiglia (discutibile).
D. E’ cercato per lavoro a qualsiasi ora (capita ad alcuni).
E. Sta bleffando.
F. E’ timido (l’ultimo timido che ho conosciuto era un gran fiòdena).
Vorrei chiedere l’aiuto del pubblico o telefonare a casa. Il mio intuito è andato in vacanza proprio oggi, spero torni presto.
Accendo la E, giusto per fare un attimo la primadonna. Oppure la risposta giusta è A-B-C-D-F, per fare la tragica.
Poi la smetto di pensare e riprendo a divertirmi, ritorna una serata magica e inaspettata, e ringrazio facendo un inchino. Guardo il mio indice, è minuscolo accanto al suo. Ci eravamo già visti prima? Si cerca in posti e persone, ma non ne esce nulla se non accenni, frammenti, di noi.
Per me, se finisce qui, è già eudemonia, per l’incertezza e l’incanto del caso. Perché non posso decidere tutto, ma permettere che accada qualcosa.
No?


La foto è di Alessia Cervini

Abbiamo chiesto all'autrice di raccontarci come nasce l'illustrazione dei suoi racconti che ci e' apparsa enigmatica, pur consapevoli che l'arte non debba avere necessariamente una funzione didascalica.
"Relativamente al mio lavoro con Alessia Cervini, condividiamo che la fotografia vada sedimentata insieme alla lettura. E' un completamento emozionale al testo scritto, senza per forza doverlo illustrare; perche' ha vita autonoma, e al tempo stesso deve accennare delicatamente - deve dare l'idea di qualcosa che si trova in un luogo simile ma non uguale, che non è per forza quello raccontato, ma è uno dei luoghi possibili. E soprattutto è un luogo del pensiero, non fisico. Non è dovuto sapere a quale parte del racconto si riferisca l'immagine, ognuno può immaginarlo. Il lavoro di Alessia scelto si riferisce in particolar modo alla relazione con gli uomini, o meglio al rapporto uomo-donna, e dunque si amalgama bene ai racconti pubblicati (escludendo solo "Topo di bordo", che è un racconto per bambini)".

martedì 17 gennaio 2012

TOPO DI BORDO


di Lavinia Collodel

Squit è un topo di bordo. Ne esistono, eccome se ne esistono. Soprattutto in campagna. Campagna? Cosa ci fa una barca in campagna? Beh, si trova in mezzo alla campagna quando è ferma sul canale di un fiume, che poi sbocca nel mare, ma intanto è campagna.
La vita è più dolce qui, come l’acqua. Il vento arriva smorzato dagli alberi, quelli veri e quelli finti. E le barche attraccano non a un molo, ma a una sponda d’erba. Ci sono fiori, api, sassi, formiche, e anche topi. Topi che salgono e scendono dalle cime d’ormeggio di motoscafi, gommoni, rimorchiatori e barche a vela. Squit ha scelto una barca a vela, la Fabulosa. E’ un perfetto riparo, pieno di anfratti, possibili tane e nascondigli. Per molti mesi l’anno, d’inverno, è suppergiù abbandonata, una vera pacchia. Il proprietario, di cui Squit non riesce a scoprire il nome - per via della sua indole solitaria, che lo porta ad avere poca gente intorno che lo chiami - è un brav’uomo. Da uomo qual è, però, ogni tanto lascia qualche trappola sparsa sul ponte, nella sala macchine e in cucina, la dinette. Ma Squit è attento. Purtroppo per lui, quando in giro c’è profumo di formaggio, c’è aria di pericolo. Ha perso tutta la famiglia a terra, nel cantiere navale qui accanto, per avvelenamento da ratticida. Una tragedia evitabile, se sua madre e i suoi fratelli non si fossero accaniti a rosicchiare bustine di una non identificabile sostanza in apparenza appetitosa. Ma letale. Per cui Squit in un primo momento è diventato giustamente sospettoso di ogni cosa, riuscendo poi a tramutare con il tempo questa apprensione in una più equilibrata attenzione.
Guarda il formaggio, mette a fuoco la trappola, e finisce per rosicchiarsi solo le unghie.
Un bel sabato caldo di primavera, Squit si sveglia con l’acquolina in bocca. C’è qualcosa nascosto sottocoperta, sicuramente. Fruga nella dispensa, nelle cabine, di qua, di là, fino a trovarlo, per le scale. Anzi, trovarle. Otto magnifiche fette di caciotta ingabbiate, una per ogni gradino, che lo stordiscono come un richiamo di sirena. L’allarme di pericolo risveglia fulmineo il suo cervelletto da topo, che si rimette in funzione per escogitare, questa volta, una tattica di attacco. Il topo contro le trappole, il topo contro se stesso.
Giorno 1. Scatti a brevi distanze. Lungo il corridorio, derapata su parete, sopra i materassi.
Giorno 2. Serie di flessioni.
Giorno 3. Stretching e yoga. Allungamento e meditazione.
Giorno 4. Esercizi meno rigorosi di apertura e chiusura rapide delle zampette.
Giorno 5. Pronto all’attacco.
Il primo tentativo fallisce miseramente con una bella frustata sulla zampetta destra, da parte del diabolico marchingegno. Seguono minuti di squittii strazianti.
Secondo gradino: ancora dolorante, la zampetta maldestra lascia trappola e caciotta per terra, senza successo.
Terzo tentativo: un salto troppo pesante fa muovere il meccanismo che scatta imprigionando irrevocabilmente la caciotta.
Squit si ferma, prende fiato come se dovesse prepararsi a una nuotata in apnea, e parte all’impazzata. Sale furioso il quarto, il quinto, il sesto, il settimo, l’ottavo gradino, e si ritrova in cima con le cinque fette in braccio. Non ha neanche dato il tempo alle trappole di attivarsi. Cinque a tre per Squit, vittoria.
Sgattaiola nella parte anteriore della barca, nella cabina di prua, dove si trova la sacca che contiene randa e fiocco, protetti nella stagione in cui la barca non utilizza le vele. Ci si intrufola, entra ed esce tra le pieghe delle vele fino a trovarne una bella larga e accogliente. La tasta, ci salta un po’ sopra, ne testa la comodità. Apparecchia con cura il banchetto con il lauto bottino e, sorridendo, sgranocchia alla salute del suo brav’uomo. Barca dolce barca.
E’ l’inizio di una nuova vita per Squit. Più sicura, con futuro. Mette su qualche grammo e una notevole pancetta da topo soddisfatto, ma continua la sua ginnastica già sperimentata, aggiungendo di tanto in tanto alcuni esercizi. Il suo preferito è correre a più non posso sull’albero maestro. L’altezza sulla punta dà una sensazione indescrivibile, sembra di dominare tutta la Fabulosa, e le barche vicine, fino all’altra sponda del canale, quella opposta alla sua. In realtà stare lassù ha anche un fine, per così dire, pratico. E’ la sua vedetta, il punto d’avvistamento per scrutare l’orizzonte non solo per il suo appagamento estatico. Da lassù impara a controllare che altri topi non salgano a bordo. Vuole difendere la sua barca. Se un altro topo salisse si creerebbe confusione, ci sarebbero maggiori segnali dell’intrusione: Squit sa che non ci può essere un altro topo accorto e pulito come lui. Un altro topo non si curerebbe di tenere in ordine la dispensa, dopo un piccolo furto necessario alla sopravvivenza. I topi, di solito, rovistano nella dinette, spostano e fanno cadere quello che non serve, aprono tutto l’apribile senza rigore logico, assaggiano questo e quello indifferentemente e alla rinfusa, senza pensare al domani. Invece Squit, volendoci pensare - al domani - e volendo rimanere, sulla Fabulosa, sa che c’è il tempo giusto per ogni cosa, e soprattutto, che c’è tempo. Oggi, ad esempio, intende provare ad aprire una bustina che sta nel terzo sportello sopra il lavandino. Sopra c’è scritto: s-e-m-i-d-i-s-e-s-a-m-o. Non ha la più pallida idea di cosa siano, ma sembrano invitanti. Fino ad ora ha usato questa bustina solo come divano. Stesa orizzontale prende perfettamente la sagoma del corpo, se steso a sua volta sopra di essa. Si fanno pisolini da sogno. Squit la prova per un’ultima volta, si stiracchia, poi decide di procedere. Con disinvoltura mette la bustina in posizione verticale: è alta quanto lui eretto sulle zampe posteriori. Bene. E’ chiusa da un filo di ferro. Non intende rosicchiare la plastica per non lasciare tracce del suo passaggio lì, dunque inizia l’arduo compito di sciogliere i nodini uno a uno. Libera! La busta è aperta. Semini deliziosi al tatto, fragranti all’olfatto, e di gusto prelibato. Starebbero meglio accoppiati con un’altra cosa, che potrebbe essere la sua riserva di caciotta. Si riempie le guance di semini, cercando di non ingoiarli, per portarli nella piega della vela.
Nella ormai adottata sala da pranzo, Squit sputacchia tutti semini facendone un mucchietto. Poi ne prende uno per volta, e lo affonda in una fetta di caciotta. Gli scappano un po’ di briciole di formaggio tutto intorno, ma è troppo impegnato sul risultato della sua creazione per curarsene. La caciotta pare abbia il morbillo, bianca a puntini marroni, ma è una vera meraviglia, pronta per il primo morso. A cui ne seguono tanti altri, finché la caciotta sparisce completamente. Sembra una magia, ma è solo opera di Squit.
Passano i giorni, forse un mese intero, e Squit vive indisturbato nella Fabulosa. Ormai la caciotta è finita da un pezzo, ma la sala da pranzo nelle vele continua a essere la tana preferita dove consumare bottini. Ha assunto l’odore caratteristico di topo, chiuso, formaggio e avanzi vari. Ma sicuramente non di escrementi. Cacca e pipì sono banditi dalla sala da pranzo e da qualunque altra parte della barca. Non che non li faccia, naturalmente. Ha solo adottato una maniera pulita per non lasciare le solite pericolose tracce di topo. Ha sentito dire che ci sono gatti che riescono a stare sulla tazza del water, quando viveva nel cantiere. Leggende metropolitane o meno, Squit una volta ci ha provato con inevitabile insuccesso. Aggrappato con forza alla tazza, sedere sporgente nel water, per la fatica non gli è uscito nulla e, allo stremo delle forze, è caduto giù, nel buco. Fortunatamente in barca non è come in una casa normale: nel water non c’è acqua, il buco è otturato, e si apre solo manualmente. La soluzione trovata, dunque, risulta più semplice, ma in ogni caso richiede una buona dose di cautela. E’ un po’ fastidiosa nel freddo dell’inverno, e nelle giornate di pioggia. La carena della barca ha vari oblò, tutti con un comodo bordino su cui sedersi. Scegliendo poi gli oblò che guardano il centro del fiume, anziché quelli che danno sulla sponda, l’operazione sembra più sicura alla larga da occhi indiscreti. Da lontano, chi si accorgerebbe mai che un topo sta facendo i suoi bisognini da un oblò? Così dunque, il fattore pulizia è protetto, e il brav’uomo proprietario della Fabulosa non ha di che lamentarsi. In fin dei conti un topo a bordo può essere fastidioso per i regalini abbandonati, ma se questi non vengono trovati, non deve esserci di che preoccuparsi.
In effetti, il brav’uomo si è accorto da tempo che qualcuno o qualcosa prende la sua barca come rifugio, o supermercato. Ma senza tracce, senza prove, non sa chi incolpare e come sbatterlo fuori. Preferisce vivere tranquillamente senza troppe preoccupazioni, finché la cosa rimane sotto controllo, o meglio, fino a quando non sopraggiungano dei problemi.
Il brav’uomo si chiama Salvatò. Squit l’ha scoperto oggi, bella giornata di sole, ideale per le manutenzioni ordinarie e straordinarie in preparazione alla partenza estiva. Il brav’uomo si è portato a bordo un tecnico, per un controllo alle apparecchiature di navigazione, il quale lo chiama spesso per nome: “Salvatò guarda qui, non s’accende”; “Salvatò è tutto sballato”; “Salvatò il preventivo sale”; “Salvatò qua, Salvatò là…”. Insomma, Salvatò. Per Squit, il suo salvatore, che gli ha dato un tetto, cibo, calore, anche se inconsapevolmente.
Purtroppo, più si avvicina la stagione estiva, più Salvatò fa irruzioni frequenti. Rimane in barca anche la notte, ci dorme. Squit in un primo momento è spaventato, anzi terrorizzato da questa novità. Prova a continuare la sua vita di sempre, con le sue abitudini di corsette, esplorazioni e passeggiate. Ad un certo punto si sente costretto a smettere, la situazione è sempre più pericolosa. Si rintana nella sua vela, portando un po’ di provviste, deciso a non uscire finché non torna il silenzio. L’attesa è noiosissima e più lunga del previsto. Il cibo scarseggia. Per non finirlo tutto, Squit decide di allentare la fame rosicchiando le vele. Sono resistenti ai suoi denti, e non è subito facile l’impresa, poi lentamente inizia a essere divertente. Comincia con un buco piccolo, poi uno più grande, e ritrova una briciola di caciotta, un po’ ammuffita ma sempre appetitosa. Pausa pranzo e riposino. Poi inizia a scavare un tunnel tra una piega e l’altra, disegnando un labirinto perfetto, comprensivo di vicoli ciechi. Fa finta di dover scappare tra le aperture fatte da lui stesso; subito dopo è lui a dover cercare qualcuno, ma la frustrazione di non trovare effettivamente nessuno fa finire il gioco molto presto.
Più passa il tempo più inizia a sentirsi in prigione, invece che in un rifugio. Ma pazienta, dormendo tanto, sognando altrettanto. Ad un certo punto deve smettere anche di dormire. Poco fa si è svegliato di soprassalto per aver sentito degli squittii, i suoi stessi squittii emessi durante un sogno che neanche riesce a ricordare.

Ed ecco la catastrofe. A bordo, oltre a Salvatò, ci devono essere altri due o tre uomini, si sente un gran vociare. Passi pesanti sottocoperta. Direzione: cabina di prua, la sua. Squit comincia a tremare, paralizzato. Non fa in tempo a saltare fuori della sacca con le vele, che questa viene sollevata e portata faticosamente di sopra. Poggiata a terra, per Squit sembra non esserci via di scampo senza farsi notare. Ecco che un’altra voce proveniente da sotto richiama tutti per un caffè. Squit è sospettoso, inizia a pensare che sia un tranello, una trappola per fargli assaporare un’ingannevole salvezza. Tenta ugualmente. Fulmineo si mette allo scoperto, a lunghi balzi attraversa il ponte, trova una cima d’ormeggio e tocca finalmente terra. Si nasconde sotto un cespuglio, non si sente troppo al sicuro, ma riesce a vedere una scena che si ricorderà per tutta la vita. I quattro uomini, ritornati alla sacca delle vele, estraggono la randa, la vela più grande, la aprono e la sollevano per armare la barca. La vela è un’opera d’arte astratta con buchi di infinite grandezze, linee di diversi spessori, parti intatte che danno ritmo e pausa alle parti lavorate. Una meraviglia. Naturalmente questo è il pensiero di Squit. Di Salvatò si sente solo l’urlo disperato: “Lo sapevo che c’era un sorcio malefico!”. Poi sviene.
Squit, da topo intelligente qual è, a questo punto capisce che non c’è più spazio per lui nella Fabulosa, e con una certa urgenza cerca la sua àncora di salvezza. La trova in una piccola barca – a motore, questa volta – dal nome Queso y amor. Formaggio e amore: promette bene.

L'immagine è di Alessia Cervini

lunedì 9 gennaio 2012

Un anno nel segno di Marte

Un omaggio alla rivoluzione tunisina che compie un anno

L'inno a Marte è un invito a lasciar fluire l’energia liberatoria della condanna dell’ingiustizia.
Ho letto un articolo sul giornale on line "il Mediterraneo.it" di Alessandra Lanzoni, “Gli Indignados del mondo e la forza di Marte”, ricevendone un’impressione forte: potrebbe diventare un monito per il 2012 e il messaggio per il primo anniversario della rivoluzione tunisina, che sarà il 14 Gennaio prossimo. “Da dove pensate che traggano la loro forza gli Indignados e i movimenti come Occupy Wall Street? Da Marte ovviamente”. Esordisce così la giornalista. Riporto quasi integralmente il testo che mi pare valga la pena di essere letto e meditato. Marte, il pianeta rosso, simbolizza quell’energia presente ogni volta che nasce qualcosa di nuovo. E’ quella spinta che ci fa dire “Io esisto”, che ci proietta fuori dal grembo di nostra madre nel mondo. Con Marte il sangue corre veloce nelle vene, carico di adrenalina, invitandoci ad agire, a reagire, a sbattere i pugni sul tavolo. Con Marte non si discute, ci si scontra, non si fanno prigionieri, nessun gentlemen’s agreement, o si vince o si perde. Anche Zeus non amava molto questo suo figlio così poco politically correct. E come Zeus, non lo ama da sempre neanche chi detiene il potere, perché l’energia di Marte è l’unica veramente in grado di spezzare le catene. Marte ci fa sentire vivi, forti, ci mette in contatto con la nostra libido, i nostri veri desideri. L’unico problema di Marte è che, se non viene adeguatamente educato, non è particolarmente scaltro. Più che stupido, è naif. Un Marte educato può diventare invece una spada tagliente e precisa come un rasoio: troppo pericoloso, meglio irregimentarlo per fargli combattere qualche stupida guerra, facendogli credere di combattere per una giusta causa. Oppure, dove le guerre convenzionali non si fanno più, si cerca di depotenziarlo, creandogli falsi desideri che lo costringeranno a lottare per conquistare qualcosa che non gli appartiene e non lo soddisfa, facendone un rammollito.
In realtà Marte è lo spirito di iniziativa, la capacità di recidere ciò che non è più funzionale e sano nella nostra vita affinché un nuovo passo in avanti possa essere compiuto.
Anche l’astrologia classica ce lo presenta da sempre come un pianeta “malefico”, portatore di guerre e conflitti, di aggressioni e violenza. E’ vero, esiste un’aggressività disfunzionale, che si può manifestare attraverso questi canali; ma è anche vero che Marte sceglie queste vie quando è stato troppo a lungo coartato e frustrato. In realtà il suo vero ruolo è quello del guerriero che serve il progetto di individuazione del Sole, combattendo lealmente contro i draghi dentro e fuori di lui, difendendo i diritti dei deboli e indignandosi per le malefatte dei malvagi.
Esprimere con assertività lo sdegno nei confronti delle ingiustizie e attivarsi per porvi rimedio è una delle migliori qualità di Marte, quella che mi auguro emerga durante il lungo transito di Marte in Vergine in questo fatidico 2012.

F etrusca


di Lavinia Collodel

Se fossi una lettera dell’alfabeto sarei la F etrusca, effe, fi, o come si pronuncia. E’ carina, pare un abete a metà, la metà di sinistra. Non perché siamo ancora vicini a Natale, non per questo mi è venuto in mente. L’albero di Natale credo che in fondo c’entri qualcosa, anche se solo a metà. In ogni caso si tratterebbe di un abete bianco, ne sono certo, ho controllato sotto i rametti della F e sono bianchi, senza dubbio. L’albero di Natale è un abete rosso, dunque tutta un’altra storia. E poi l’albero di Natale è carico, strapieno di cose, sopra in mezzo dappertutto, addobbato. Io invece sono a metà, come la F etrusca. Non ho finito di segnare la mia parte destra - mi è stata anche cancellata – per buttarmi a capofitto nelle lettere seguenti, che scrivono le parole della mia storia, andando da destra a sinistra come facevano gli etruschi, e poi da sinistra a destra, in andamento bustrofedico, dall’alto al basso, vorticosamente.
F come fumare – abbastanza, e avevo smesso per anni, maledizione.
F come finito – di dover raccontare cosa successe l’anno scorso, ormai lo sanno quasi tutti.
F come frattaglie – interiora aggrovigliate.
F come fame – quella che non ho più.
F come freddo – lo sento sempre, mi sento sempre.
F come futuro – incerto.
F come fuzzy logic – logica incoerente: perché è successo?
Fine dicembre di un anno fa, domenica. Penny sta arrivando da me. E’ sul raccordo. Io torno da uno dei miei soliti viaggi di lavoro, questa volta in Venezuela.
E’ uno di quei tramonti alle quattro del pomeriggio, che verrebbe solo da infilarsi sotto il piumone, cosa che farò con Penny non appena arriva. Siamo sposati, ma abbiamo ancora due case separate, nulla di grave, ci piace così, per ora. Forse più a me che a lei, ma tra poco mi convincerà dolcemente a dare via tutto per prenderci qualcosa insieme. Dirò di sì, naturalmente.
Ho un regalo per lei. Adora le sorprese, la mia Penny. Ho messo su un cd che le piace.
La casa è tutta in ordine, la donna delle pulizie ha fatto miracoli in mia assenza, come sempre.
Non vedo l’ora che arrivi.
La vorrei chiamare per chiederle quanto le manca a casa mia, quanto le manco, da quanto. Mi contengo, mi trattengo, e faccio un paio di telefonate a caso.
Poi squilla il cellulare.
- Lei è Ulli?
- Dipende. Chi parla?
- Polizia.
- Sono Ulli solo per una persona. Francesco all’anagrafe.
- E’ successa una cosa a una persona che dovrebbe conoscere. Chi la chiama Ulli.
- Penny?
- No, Claudia Manchi.
- E’ Penny.
Non ci capisco più nulla. Chi mi sta chiamando, cosa vuole da me, dov’è Penny. Ansia nera. Cosa è successo. Cosa devo fare. Chi sono.
- Francesco?
- Sì, sono qui.
- Si faccia accompagnare da qualcuno in centrale, uscita 8 del raccordo.
- Adesso?
- Adesso.
La mia Penny. Penny-Penelope che fa la calzetta, come dice lei, mentre io Ulli-Ulisse sto in giro per il mondo, ogni mese in posti diversi, per lavoro. E’ pure simpatica, la mia donna, mia moglie.
Quello che viene dopo non lo vorrei ricordare. Ma Penny non c’è più, e la sua assenza me lo ricorda ogni istante, ogni dannatissimo secondo. E’ andata più o meno così, la scena: un infame supera a destra, e taglia la strada all’amore mio che, lumachina, si teneva a destra. La fa fuori sul colpo, l’infame. Ma non è un mio ricordo, io non c’ero, lo immagino solo, ogni giorno, ogni notte in bianco o in sogno. Mi riempio e mi svuoto, e non mi rimane più nulla. Non sento il dolce né il salato, contratto di pianto, muto dalle troppe urla.
F come fregato da un fottuto fijo-de-‘na-mignotta.

La foto è di Alessia Cervini

mercoledì 4 gennaio 2012

Non basta giocare


di Lavinia Collodel

Avete mai fatto l’amore su un campo da golf? Beh, io sì. E su un campo da tennis? … non ho giocato abbastanza per arrivarci. Ma questa non è una storia d’amore.
Il circolo era formale, uh se lo era. Non so se avete presente la vita da club house. A certi può piacere, in fondo possono nascere amicizie, si intessono relazioni di lavoro, sì, public relation. Me ne sono sempre stata per i fatti miei, tra la fine di una gara e la premiazione. A me interessava giocare.
Non che fossi scratch. Un modesto 12 di hcp, giusto per stare in prima categoria. Per poter partecipare alle gare nazionali. Quelle in cui c’erano i giocatori veri, con uno swing da sogno, dall’arco ampio, i polsi carichi nel back, i gomiti vicini, un grip aggressivo nel passaggio delle mani, la zolla che si stacca perfetta all’impatto con la pallina, un suono pieno e poi un sibilo che taglia il vento, per arrivare ad un finish da scultura ellenistica.
Forse sono sempre stata più un’esteta che una giocatrice, lo devo ammettere. Mi chiamavano orologio svizzero. Il mio gioco era corto e preciso. Avevo tecnica, tenacia, sapevo leggere il campo abbastanza bene, un po’ meno l’avversario nei math play. Tic tic tic tic. E mi usciva un par. Un piccolo errore, e rimanevo nel bogey. Ma difficilmente avevo il culo, la lunghezza, il non sapevo cosa, per acchiapparmi con coraggio un birdie.
Non che andassi a farmi la passeggiata della domenica. No, questo mai. La gara era sacrosanta e da prendere con tutto il rispetto.
Non avevo abbastanza grinta. Tendevo sempre a prendere un ferro più lungo del necessario. Voi mi direte che sarà stata la sicurezza a mancarmi, più di ogni altra cosa. E’ vero. Ma è ancor più vero che non era tanto la sicurezza del mio gioco in sé a mancarmi, quanto una sicurezza più profonda, intima, che si trova in quel punto dove noi conosciamo noi stessi.
Buca 11. Par 3, corto. Non ricordo i metri esattamente, intorno ai 125. Tee di partenza alto su una collina, green in basso. In mezzo, un rough di quelli dove sperate di non finire mai, e un ostacolo d’acqua frontale, un fiumiciattolo difficile da far finta di non vedere. Il green si erge a vulcano da una corona di piccoli bunker tutti intorno eccetto la curva protetta dall’acqua. Dietro al green, un rough duro, e qualche rado pino marittimo molto alto, dalla chioma ad ombrello. Una buca non esageratamente difficile, ma delicata. Soprattutto perché viene dopo la pausa delle prime 9 buche, e la tensione si è allentata per un attimo. Su questa buca ho giocato di tutto, dal legno 5 al ferro 9. Vento a favore o vento contro modificavano il gioco in un modo da non crederci. Ho usato il 9 nel mio momento di massima personalità, per quanta ne potessi avere. Il legno, tirato mollemente come fosse un approccio, per evitare che la pallina corresse troppo sul green e scappasse in un bunker. Una vera schifezza di attacco. Al ferro 4 non riuscivo a dare il backspin sul green, che invece con il 5 e il 7 non andava male. Con il ferro 8 ho avuto momenti di amore e indifferenza, perché un po’ ibrido. Con il 9 sarei potuta andare ovunque. In senso buono, dico. Il 9 però, solo se c’era qualcuno che mi incoraggiasse, come il mio maestro, il mio ragazzo, un compagno di gioco vicino a me e sincero, certamente non un gufo o un rosicone - che sembra quasi un animale raro, come tanti ce ne sono, liberi di scorrazzare per i prati.
Confesso tristemente che non mi ero ancora trovata. Se non ero consapevole di me stessa, come potevo esserlo del mio gioco?
All’epoca, non ne ero cosciente, naturalmente.
Così mi giustificavo dicendomi che ero magrolina e bassetta, senza le possibilità fisiche di raggiungere una certa potenza, necessaria per arrivare a buoni livelli. Mi ero posta dei falsi limiti invalicabili. Evidentemente non avevo ancora mai visto Maradona giocare a calcio. Ma, allora, mi sentivo come una giocatrice di pallavolo troppo bassa, una ginnasta in sovrappeso, uno sciatore troppo leggero. Non ascoltavo neppure tutte le malelingue che sdegnavano il golf come uno sport da vecchi. Ero fermamente convinta che bisognasse avere un gran fisico per fare risultato.
Mi mancavano le potenzialità.
Avevo dimenticato – o mai trovato - tutto ciò che sta là dentro in fondo, chissà dove, che non è il cuore e ancor meno la testa.
Buca 16. Par 4. Green facilmente raggiungibile in 2 anche per me, dunque decisamente corta, come buca. Il fairway parte presto, dritto fino a tre quarti della buca, quando piega a destra ad angolo retto, nascondendo il green dietro una collina di rough. Tutto il lato destro della buca è off limits, non che ci siano i paletti bianchi sul serio, ma meglio evitare: alberi, erba alta, e scarpata che per via degli alberi non ti fa più risalire. Nel match play, per me è stata sempre una buca decisiva. Giocando contro chi è più o meno al vostro stesso livello, mancando due buche alla fine, si è facilmente 1 o 2 up o down. E quindi ci si gioca tutto, o molto, alla 16. Quella volta giocavo la Coppa del Presidente, la gara più importante interna del circolo. Il mio avversario è del mio stesso livello, ce la siamo battuta per tutte le 15 buche precedenti. Ma sul tee del 16 sono 1 down. Lui ci tiene molto. E’ nervoso sul drive, e gioca bene. Io non so quanto ci tenessi, giocavo più contro il campo e contro me stessa, mi interessava quasi più giocare bene che vincere, e non è l’approccio dei migliori, in un match play uno-contro-uno. Evitando qualsiasi tipo di ostacolo, ci troviamo sul green entrambi con 2 colpi. Mi trovo più lontana dalla buca, dunque ho la precedenza. Tiro un putt ad avvicinarmi, in sicurezza. Lui studia le pendenze con cura, accarezza il taglio dell’erba, percorre avanti e indietro il percorso immaginario della pallina. Mi guarda. Si accovaccia dietro la buca e osserva il percorso dalla parte opposta. Si alza. Mi guarda di nuovo. Ha capito cosa fare. Tira. Buca. Birdie per lui.
Non vi sto a dire cosa abbiamo fatto alla 17, ma ho perso, alla fine, 2 down.
Non gioco da più di dieci anni. Ora vedo meglio, nonostante la miopia incalzante. Non me ne sto per i fatti miei, adoro scoprire le persone.
Ma se sento dell’erba appena tagliata, l’odore mi fa chiudere gli occhi, inebriata; se salgo sull’autobus, afferro saldamente il sostegno a due mani, sovrapponendo il mignolo della destra all’indice della sinistra; se piove, vado senza ombrello, con piacere; se c’è vento, ne cerco con il viso la direzione, e ne annuso l’intensità.

La foto è di Alessia Cervini

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", 16 maggio 2012, libreria N'Importe Quoi, Roma

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", 16 maggio 2012, libreria N'Importe Quoi, Roma
Ilaria Guidantoni insieme all'attore teatrale Giuseppe Bisogno, che ha curato le letture, e al musicista Edoardo Inglese, autore di una selezione di brani musicali

"Tunisi, taxi di sola andata" a Milano, 19 aprile 2012

"Tunisi, taxi di sola andata" a Milano, 19 aprile 2012
Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata a Milano", libreria Milano Libri. Insieme all'autrice, Ilaria Guidantoni, il presidente del Touring Club Italiano, Franco Iseppi, e Laura Silvia Battaglia, inviata esteri di Avvenire. Letture a cura dell'attore Michele Mariniello

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", libreria N'Importe Quoi di Roma, 13 aprile 2012

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", libreria N'Importe Quoi di Roma, 13 aprile 2012
Ilaria Guidantoni ospite di RADIOLIVRES, con Vittorio Macioce, caporedattore de' Il Giornale, ed Edoardo Inglese,"musicante", in una serata di parole e musica

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata" presso il Rotary Club di Marina di Massa, 29 marzo

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata" presso il Rotary Club di Marina di Massa, 29 marzo
L'autrice tra Lorenzo Veroli, il Segretario del Club e Chiara Ercolino

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata" presso la libreria Griot di Roma, 28 marzo 2012

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata" presso la libreria Griot di Roma, 28 marzo 2012

Presentazione "Tunisi, taxi di sola andata", Roma, Sala stampa Camera dei Deputati, 28 marzo 2012

Presentazione "Tunisi, taxi di sola andata", Roma, Sala stampa Camera dei Deputati, 28 marzo 2012
Insieme all'autrice, Ilaria Guidantoni, l'on. Elisabetta Zamparutti (Radicali Italiani) e il giornalista tunisino Salah Methnani, inviato di Rainews24

Giovedi 1° marzo 2012, alla Centrale Montemartini di Roma, dalle ore 18.30 presentazione di "365D"

Giovedi 1° marzo 2012, alla Centrale Montemartini di Roma, dalle ore 18.30 presentazione di "365D"
Marzia Messina, ideatrice del progetto e realizzatrice per "Prima che sia buio" della foto dell'autrice

Il fotografo di 365D Sham Hinchey

Il 29 agosto di 365D

Con Raffaella Fiorito, mia vicina di calendario

Presentazione di "Prima che sia Buio", Galleria d'arte Barbara Paci, Pietrasanta, 16 Luglio 2011

Presentazione di "Prima che sia Buio", Galleria d'arte Barbara Paci, Pietrasanta, 16 Luglio 2011

Metti una sera d'estate, prima che sia buio...

"Prima che sia buio" incontra l'arte alla Galleria Barbara Paci di Pietrasanta

Ilaria Guidantoni e Barbara Paci

La scrittrice con i genitori

La scrittrice tra Daniela Argentero e Barbara Paci

La scrittrice tra gli amici

Leggendo "I giorni del gelsomino" con il pittore Agostino Rocco

Leggendo "Colibrì"

L'autrice con Agostino Rocco

A Jorio, dedicato a Pistoia, alla Toscana e a una città d'arte

Tra Firenze e Pistoia

Con il pittore Agostino Rocco tra parole e immagini